Elezioni politiche 4 marzo 2018: chi ha vinto
I risultati delle elezioni politiche 2018 non determinarono automaticamente una maggioranza parlamentare. Il sistema dei partiti tripolare e la controversa legge elettorale, Rosatellum bis, avevano in realtà prodotto una sorta di pasticcio elettorale, poiché una “coalizione di governo”, ovvero una coalizione che aveva fatto leva principalmente sul sistema elettorale maggioritario, non era riuscita a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi e si confrontava con un singolo partito politico, il Movimento 5 Stelle, che nonostante fosse penalizzato dal maggioritario era diventato la prima forza politica del paese. La formazione di una maggioranza parlamentare sembrava quindi un rebus impossibile, ma la relativa tranquillità della situazione economica e istituzionale consentiva di prendere tempo e prolungare le trattative tra i partiti.
I risultati delle elezioni per il rinnovo del Parlamento del 4 marzo 2018 mutarono lo scenario politico, che si era consolidato durante la XVII legislatura con la formazione di una maggioranza di centrosinistra, e determinarono nuovamente una situazione di stallo del Parlamento, similmente a quanto accaduto con le elezioni politiche del 2013. Infatti, nessuno degli schieramenti in competizione ottenne un numero di seggi sufficiente a formare una maggioranza parlamentare.
Il contesto economico e istituzionale, però, era diverso rispetto a quello in cui si tennero le elezioni politiche del 2013 - per via del superamento della crisi e una crescita economica positiva, del Presidente della Repubblica nella pienezza del suo mandato e eventualmente nella facoltà di sciogliere nuovamente le camere, per la relativa autorevolezza del governo uscente guidato da Paolo Gentiloni - per cui la situazione di stallo non preoccupò eccessivamente i mercati finanziari, le istituzioni europee e in ultima analisi i cittadini.
I partiti politici che in questa tornata elettorale erano cresciuti significativamente rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2013 furono il Movimento 5 Stelle, la Lega Nord e Fratelli d'Italia.
Il Movimento 5 Stelle ottenne una quota consistente di consensi (circa il 32,5%) e di seggi (circa 227 alla Camera e 112 al Senato) e diventò il primo partito sia alla Camera dei deputati che al Senato.
La Lega Nord si era presentata alle elezioni come componente di una coalizione di governo con Forza Italia, Fratelli d'Italia e la lista Noi con l'Italia. Il successo della Lega Nord era quindi legato:
- al successo della coalizione di centrodestra che ottenne un numero di seggi in Parlamento maggiore rispetto al Movimento 5 Stelle, conquistando circa 265 seggi alla Camera e 137 al Senato;
- alla conquista della leadership all'interno della coalizione, avendo raccolto una quota di consensi maggiore rispetto a Forza Italia (circa il 17,37% alla Camera a fronte del 14,01% di FI).
La nuova legge elettorale, Rosatellum bis, adottava un sistema elettorale misto ma prevalentemente proporzionale. La quota di seggi del Parlamento assegnata con il maggioritario era circa di un terzo e, considerando la prevalenza della quota proporzionale, avrebbe dovuto indurre i partiti politici alla formazione di coalizioni solamente elettorali, ovvero coalizioni blande che potevano essere sciolte dopo il voto, e non coalizioni di governo, ovvero coalizioni coese che si proponevano come maggioranza parlamentare già prima delle elezioni. Tecnicamente, la scelta riguardava il compromesso tra le possibilità di vittoria e l'appartenenza dei candidati da proporre nei collegi uninominali.
La scelta strategica attuata da Silvio Berlusconi di presentare agli elettori una coalizione di governo replicando lo schema delle elezioni regionali siciliane, piuttosto che meno impegnative coalizioni elettorali, favorì la vittoria del centrodestra e trainò la crescita dei singoli partiti politici componenti la coalizione, stemperando le innegabili disomogeneità interne allo schieramento. Probabilmente, se i partiti di centrodestra si fossero presentati con semplici coalizioni elettorali non avrebbero avuto gli stessi risultati e la crescita della Lega Nord non avrebbe avuto lo stesso impatto. Tuttavia, la necessità di cristallizzare la coalizione al fine di proporsi come maggioranza di governo determinò il congelamento delle alleanze del centrodestra e una maggiore difficoltà ad allargare il perimetro della coalizione dopo il voto.
D'altro canto anche la strategia politica del Movimento 5 Stelle, che pur libero da vincoli di coalizione era ostinatamente refrattario a qualsiasi collaborazione con altri partiti, rendeva difficile un eventuale cambio di strategia per formare una maggioranza parlamentare.
Pur con le differenze evidenziate, il Movimento 5 Stelle guidato da Luigi Di Maio e la Lega Nord guidata da Matteo Salvini furono i vincitori delle elezioni politiche del 4 Marzo 2018 per il rinnovo del Parlamento.
Chi ha perso
Le elezioni politiche del 2018 ridimensionarono: tutti i partiti minori, la sinistra radicale confluita nella lista Liberi e Uguali e il Partito Democratico.
I partiti minori nonostante abbiano cercato di aggregarsi in liste nel tentativo di superare la soglia di sbarramento del proporzionale fissata al 3% non riuscirono a superarla, tuttavia alcuni partiti riuscirono a far eleggere propri rappresentanti attraverso alleanze nei collegi uninominali.
Escludendo le circoscrizioni estero e i partiti espressione di autonomie territoriali, solamente sei partiti di rilevanza nazionale fecero il loro ingresso in Parlamento passando dalla porta principale del sistema elettorale proporzionale. Una novità per il Parlamento italiano che, però, si verificò proprio quando i partiti maggiori avrebbero avuto più bisogno del cosiddetto sottobosco parlamentare al fine di costituire una maggioranza.
La sinistra radicale subì una pesante sconfitta sul piano politico, oltre che nei numeri. Nella XVII legislatura l'insieme della sinistra radicale, era composto da:
- Sinistra Italiana (inizialmente 13 deputati e 7 senatori), nato come gruppo parlamentare che aveva assorbito i primi scissionisti del PD guidati da Stefano Fassina, alcuni transfughi del Movimento 5 Stelle e Sinistra Ecologia e Libertà (che nel 2013 era entrata in parlamento con 37 deputati e 7 senatori);
- Possibile (4 deputati), nato dall'abbandono del Partito Democratico da parte di Pippo Civati;
- Articolo 1 - Mdp (42 deputati e 16 senatori), nato dalla scissione di Bersani e altri dal Partito Democratico;
Queste formazioni politiche a sinistra del Partito Democratico, per le elezioni politiche del 4 Marzo 2018, confluirono nella lista Liberi e Uguali (guidata da Pietro Grasso) che riuscì a far eleggere solamente 14 deputati e 4 senatori.
Probabilmente il peso politico della sinistra radicale durante la XVII legislatura era sovrastimato, ma il tonfo elettorale di Liberi e Uguali fu politicamente significativo (anche se i mass media non lo evidenziarono) e ha confermato la pretestuosità, o quantomeno la forzatura, delle ragioni degli scissionisti del Partito Democratico sintetizzate da Bersani con la metafora della mucca nel corridoio.
In sostanza, il progetto politico della sinistra radicale di voler recuperare consensi a sinistra si dimostrò fallimentare, sia perché tardivo (i buoi erano usciti dal recinto molto prima della scalata di Matteo Renzi alla segreteria del PD), sia perché la popolazione occidentale era ormai troppo distante dalla cultura politica della sinistra ideologica del '900 (come sembravano confermare gli esiti elettorali delle esperienze di sinistra in Europa e nel mondo).
Anche il Partito Democratico subì una pesante sconfitta per quanto riguarda i numeri, ma probabilmente non per quanto riguarda la linea politica inaugurata durante la segreteria di Matteo Renzi. Il Partito Democratico perse molti consensi: dal 25,43% ottenuto alla Camera dei deputati nelle elezioni politiche del 2013 passò al 18,72% delle elezioni politiche del 4 marzo 2018. Dal 27,44% al Senato nel 2013 al 19,12% del 2018. Una sconfitta che nei numeri appariva ancora più clamorosa guardando al 40,82% ottenuto alle elezioni europee del 2014.
Tutto il centrosinistra riuscì a conquistare solamente 122 seggi alla Camera e 60 al Senato. Includendo anche la lista Liberi e Uguali, la crisi della sinistra nel suo complesso era ormai conclamata anche in Italia.
Tuttavia, poiché il Partito Democratico sotto la guida di Matteo Renzi aveva già parzialmente cambiato la sua linea politica allontanandosi dalla sinistra tradizionale, la debacle del Partito Democratico non può essere spiegata solamente accomunando il PD alle sorti della sinistra in Europa e nel mondo.
Altri fattori avevano contribuito a determinare la sconfitta del Partito Democratico, come:
- l'essere stato non "un" ma "il" partito di governo che agli occhi dell'opinione pubblica rappresentava l'establishment ormai da oltre 6 anni (in pratica da quando sostenne il governo Monti);
- l'aver subito troppi conflitti interni e scissioni a sinistra che erano finite nel vuoto, come se alla sinistra del PD vi fosse un buco nero.
Infatti, la tendenza del centrosinistra di perdere voti attraverso scissioni a sinistra che non riuscivano a costruire alternative si era protratta ormai da qualche decennio, come se i politici ispirati dalla anacronistica ideologia di sinistra del '900 avessero preferito un lento e snervante suicidio in nome dell'ideologia piuttosto che un aggiornamento della propria piattaforma politica.
Parte della sinistra si ostinava a imputare la sconfitta del Partito Democratico alla perdita di legami con il popolo di sinistra, senza mai considerare l'ipotesi che il popolo della sinistra ideologica del '900 potesse non esistere più o quantomeno che fosse stato parecchio ridimensionato dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico.
Di fatto, la sconfitta del Partito Democratico fu rappresentata dai mass media come la conseguenza di una cattiva gestione del partito da parte del suo segretario Matteo Renzi, della sua irruenza e del suo stile comunicativo, dei suoi errori tattici e finanche strategici, o addirittura della sua antipatia come evidenziato da qualche commentatore.
A parte questo rigurgito di provincialismo della politica e dei mass media italiani, probabilmente le ragioni principali della perdita di consensi del PD andavano ricercate nel pegno pagato dal partito per i cinque anni di governo, in un periodo storico in cui chi governava rappresentava di fatto il cosiddetto establishment, e per il disperato tentativo di una parte del PD di rincorrere una base elettorale che non esisteva più.
Di conseguenza, la sconfitta subita dal Partito Democratico non mise in discussione la sua linea politica caratterizzata dal riformismo, dall'europeismo e dal moderatismo.
Cambiamenti e prospettive politiche
Le elezioni poliche del 4 Marzo 2018 confermarono e accentuarono la tendenza, già evidenziata dalla situazione politica italiana che si era determinata dopo le elezioni del 2013, a una polarizzazione dell'elettorato tra riformisti (o moderati) e forze politiche anti-establishment (o estreme) che proponevano cambiamenti più radicali e dirompenti, sia perché giudicavano le politiche attuali insufficienti o inadeguate, sia perché auspicavano la sovversione di un ordine che sembrava costituito volutamente per favorire le classi agiate.
Questa tendenza fu confermata anche dall'arretramento di Forza Italia rispetto alla Lega Nord: il cambio di leadership nella coalizione di destra evidenziò come gli elettori di centrodestra, tradizionalmente moderati, avessero preferito il radicalismo della Lega rispetto al moderatismo di Forza Italia.
Infatti, anche se Berlusconi si intestò la vittoria della coalizione, il ruolo di Forza Italia nello schieramento di centrodestra fu parecchio ridimensionato da queste elezioni. Si prospettava quindi una inversione di tendenza rispetto al passato: le posizioni del centrodestra nel suo complesso avrebbero potuto subire una metamorfosi e diventare più estreme, facendo perdere a Forza Italia la sua connotazione di partito moderato.
Un centrodestra a trazione leghista, però, non sarebbe stato accolto con favore dagli elettori moderati di Forza Italia che si trovò a gestire due tendenze politiche contrapposte: da un lato l'appiattimento sulle posizioni più radicali della Lega e di Fratelli d'Italia, dall'altro la tentazione di marcare la propria differenza per riprendersi la guida dei moderati italiani.
Considerando le incertezze di Forza Italia, gli elettori moderati italiani erano ormai sempre più propensi a sostenere il Partito Democratico. Infatti, se per un verso le elezioni politiche del 4 marzo 2018 avevano decretato la sconfitta del PD, per l'altro verso avevano caratterizzato il Partito Democratico come unico vero baluardo contro l'anti-europeismo delle forze politiche populiste.
In sintesi, le forze politiche più radicali avevano vinto perché avevano criticato aspramente l'operato delle forze politiche moderate, ritenendolo insufficiente o addirittura controproducente, e avevano promesso al popolo italiano molto di più di quanto fosse riuscita a fare la maggioranza guidata dal PD durante la XVII legislatura.
Evidentemente, la maggioranza degli elettori aveva creduto a queste promesse e alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 aveva premiato chi prometteva di fare meglio.
Probabilmente, la maggioranza degli elettori aveva fatto questa scelta anche perché era mutato l'approccio dei cittadini alla politica: dopo la crisi economica la popolazione aveva preso coscienza che spettava alla politica risolvere determinati problemi, che l'individualismo e l'arte di arrangiarsi non erano più efficaci nel mondo globalizzato e che per ottenere risultati concreti in tempi ragionevoli era indispensabile sapersi organizzare a livello di comunità.
Tuttavia, le forze politiche vincenti delle elezioni politiche 2018 dovevano ancora dimostare di saper fare di più. Qualora il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord non fossero riusciti a mantenere le loro promesse, bisognava pensare a un paracadute per il loro fallimento.