Liberismo e politiche economiche di sinistra
Paradossalmente, in Italia la critica alle teorie neoliberiste tende a intensificarsi e a prendere di mira i governi sostenuti dai partiti di sinistra. In sostanza, questi governi sono accusati di non essere capaci di attuare una vera politica economica di sinistra e di essere troppo liberisti. Ma nell’era della globalizzazione in cosa dovrebbe consistere una politica economica di sinistra?
Si potrebbero rispolverare le teorie e i concetti dello stato sociale ovvero della riduzione delle disuguaglianze attraverso il cosiddetto "welfare state", dell'economia sociale di mercato ovvero dell'intervento dello Stato ogni qualvolta le forze di mercato alterano la giustizia sociale, delle politiche economiche keynesiane ovvero della necessità dell'intervento pubblico per sostenere la domanda aggregata, ma si tratta di teorie e concetti che non possono essere considerati patrimonio esclusivo dei partiti di sinistra. Infatti, le critiche provienienti da sinistra al presunto neoliberismo governativo non indicano mai quale piattaforma politica si dovrebbe adottare per attuare una "politica economica di sinistra".
La maggior parte delle critiche provenienti da sinistra piuttosto che definire chiaramente in cosa dovrebbe consistere una politica economica di sinistra ricorre a un artificio retorico basato sulla contrapposizione tra politiche economiche di sinistra e politiche di carattere neoliberista di cui il governo è puntualmente accusato di essere il portatore.
In altre parole, la critica ai governi che non sarebbero capaci di attuare una politica economica di sinistra viene esplicitata attraverso una critica all'azione di governo assimilata, a torto o a ragione, alle politiche neoliberiste, dove per liberismo si intende un sistema di governo dell'economia in cui le decisioni fondamentali sono prese dagli operatori privati - dal libero mercato - e l'intervento dello Stato è nullo o comunque molto limitato.
Tra le critiche al liberismo vengono poi annoverati anche gli aspetti negativi della globalizzazione e della libertà di movimento dei capitali internazionali, essendo le teorie sulla libertà degli scambi internazionali assimilate al liberismo.
In effetti, la teoria liberista delle origini sosteneva che un sistema economico è in grado di determinare automaticamente, ovvero senza alcun intervento da parte dello Stato, la migliore allocazione possibile delle risorse per accrescere il benessere del maggior numero possibile di individui (per una rassegna del pensiero liberista nonchè del suo rapporto con il liberalismo politico consulta questo link). Tuttavia, il liberismo classico è una teoria che ha avuto una collocazione precisa nella storia del pensiero economico, essendo nata come reazione a un contesto in cui l'economia era fortemente imbrigliata da usi e costumi, addirittura risalenti al periodo feudale, che ostacolavano pesantemente il libero mercato.
Nel corso della storia il liberismo assoluto del "laissez-faire" non è mai stato applicato, anzi i paesi che hanno favorito il libero mercato hanno progressivamente sviluppato un sistema di regole di mercato teso a favorire lo sviluppo della concorrenza e a contrastare i monopoli naturali. Ad esempio, le leggi antitrust e le istituzioni per la regolamentazione dei mercati sono nate proprio negli Stati capitalisti. Insomma, liberismo non vuol dire assenza totale di regole di mercato.
Da dove nasce allora questa sorta di avversione atavica verso il liberismo o il neoliberismo da parte di alcune forze politiche nello specifico di sinistra, anche se un atteggiamento ostile nei confronti del neoliberismo e in particolare della globalizzazione si riscontra pure in alcune forze politiche di destra o più precisamente della destra sociale?
Probabilmente, nell'immaginario collettivo la teoria economica liberista è stata associata agli Stati capitalisti, ovvero all'economia di mercato e alla crescita delle disuguaglianze, mentre all'opposto la teoria economica interventista (o statalista o collettivista) è stata associata agli Stati socialisti dove non esiste libero mercato, essendo la proprietà dei mezzi di produzione esclusivamente dello Stato, e dove l'equa distribuzione della ricchezza viene garantita dallo Stato stesso.
Questa fuorviante contrapposizione tra liberismo e interventismo dello Stato è stata imbastita estrapolando la teoria liberista dal suo contesto storico, addebitando al liberismo lo sfruttamento e le ingiustizie sociali nei paesi capitalisti, evocando il dualismo tra capitalismo e socialismo, tra proprietà privata e proprietà pubblica, tra interessi particolari e interessi generali. Il neoliberismo è così diventato sinonimo di capitalismo selvaggio, di economie di mercato senza regole dove vige la legge del più forte, della cattiva globalizzazione che grazie alla libertà di movimento dei capitali consente all'establishment economico di privilegiare gli interessi del capitale finanziario a discapito degli interessi dei cittadini.
Questa rappresentazione ingannevole del liberismo e dell'interventismo dello Stato ha introdotto nel dibattito politico italiano delle distorsioni che sono state spesso utilizzate dai partiti di sinistra per demonizzare il libero mercato e dai partiti della destra liberale per demonizzare l'intervento dello Stato nell'economia.
Infatti, essendo l'Italia una socialdemocrazia, ovvero un paese nel quale vige sia l'economia di mercato sia la proprietà statale dei mezzi di produzione, il dibattito politico ha riguardato quasi esclusivamente la proprietà e la gestione dei mezzi di produzione trascurando quasi completamente i poteri regolamentari dello Stato, pur essendo questi molto forti o addirittura asfissianti. Tant'è vero che l'economia italiana appare ancora imbrigliata da un'eccessiva burocratizzazione mentre la creazione delle cosiddette "authority" indipendenti per la regolamentazione dell'economia è avvenuta in ritardo rispetto alle altre principali economie occidentali.
Il complesso argomento della politica economica, che in realtà si basa su modelli matematici e studi da premio nobel, è stato semplificato dalla comunicazione politica italiana contrapponendo il neoliberismo allo statalismo, banalizzando le teorie economiche e estrapolandole dal contesto.
In sintesi, alla sinistra spetterebbe il monopolio delle politiche economiche espansive, delle politiche fiscali di redistribuzione della ricchezza tra la popolazione, della diminuzione delle disuguaglianze sociali, delle politiche keynesiane di aumento della spesa pubblica, delle politiche tese ad una sempre più stringente regolamentazione dell'economia. Alla destra liberale, invece, spetterebbe il monopolio delle politiche di deregolamentazione dell'economia, delle privatizzazioni, delle politiche restrittive della spesa pubblica, della riduzione delle tasse, della conservazione delle disuguaglianze sociali come stimolo per la crescita economica degli individui (una interpretazione reazionaria della mobilità sociale e del cosiddetto "sogno americano").
Questa tesi poggia su una visione della realtà economica contemporanea distorta ed è già stata smentita dalle politiche economiche italiane del passato, quando governi di destra hanno attuato politiche economiche espansioniste e stataliste e governi di sinistra hanno adottato politiche restrittive, privatizzazioni e qualche liberalizzazione. Ma si può anche rilevare come i governi di destra non abbiano abbassato la pressione fiscale o snellito la burocrazia, mentre i governi di sinistra non siano pervenuti a una più equa distribuzione della ricchezza o a una erosione dei privilegi e dei corporativismi. Si rivendicano, in sostanza, politiche economiche di sinistra virtuali.
Il risultato di queste anacronistiche e sterili polemiche è che attraverso la politicizzazione delle teorie economiche gli effetti del potere regolamentare dello Stato italiano sull'economia vengono sottovalutati. Come già accennato, il dibattito politico italiano relativo all'intervento dello Stato nell'economia è stato spesso monopolizzato da discussioni sulla proprietà pubblica, ovvero sulle privatizzazioni, mentre le liberalizzazioni sono rimaste incompiute con l'aggravante che monopoli e oligopoli di stato sono di fatto transitati quasi indenni in mano privata.
Le norme che disciplinano le attività economiche appaiono ancora fortemente burocratiche e stratificate in moltissimi settori. Se a questo si aggiunge la gestione diretta e indiretta dei servizi pubblici, con lo Stato che gestisce una spesa pubblica che ammonta a circa il 50% del PIL, il sistema economico italiano non può certo essere considerato liberista o neoliberista.
Indubbiamente, l'economia italiana risente dell'espansione del commercio internazionale e della globalizzazione, ovvero dell'ascesa e della concorrenza di nuove potenze economiche, come ad esempio la Cina, ma questo assetto dell'economia mondiale non dipende dalle presunte politiche economiche neoliberiste dei governi italiani.
Eventuali critiche alle politiche neoliberiste dovrebbero essere dirette alle organizzazioni internazionali e agli Stati che hanno voce in capitolo sull'ordine mondiale dell'economia, non ai governi italiani.
Inoltre, a livello globale l'espansione del commercio internazionale e la liberalizzazione delle economie ha prodotto risultati positivi per i paesi sottosviluppati. In termini statistici le cosiddette politiche neoliberiste hanno avuto successo, nonostante alcuni effetti collaterali abbiano generato sacche di ingiustizia e nuove disuguaglianze.
Gli effetti dell'espansione del commercio internazionale e della globalizzazione sui mercati interni italiani, invece, più che il frutto delle politiche economiche dei governi, indifferentemente di destra o di sinistra, sono la conseguenza della partecipazione dell'Italia al sistema economico globale ed europeo. L'Italia è un paese manifatturiero che ha seguito un modello di sviluppo economico basato sulle esportazioni, basti pensare al cosiddetto "made in Italy" apprezzato e riconosciuto in tutto il mondo, e questo è già un motivo sufficiente per non chiudersi al commercio internazionale e alla globalizzazione.
In sostanza, il presunto liberismo italiano è un argomento di critica politica privo di fondamento, poiché in Italia non sono mai state adottate politiche neoliberiste o di deregolamentazione dell'economia come quelle adottate dalla Thatcher in Inghilterra o da Reagan negli Stati Uniti.
Forse, avrebbe potuto essere imputata a politiche neoliberiste l'assenza di una politica economica e industriale durante la transizione dalla moneta debole (la Lira) alla moneta forte (l'Euro), poiché una miriade di piccole imprese sono state abbandonate a se stesse determinando la scomparsa di interi distretti industriali e numerose delocalizzazioni produttive. Ma nè i critici del liberismo nè i sindacati (le aziende colpite dalla concorrenza internazionale avevano spesso meno di quindici dipendenti) si sono attivati per criticare e scongiurare gli effetti a lungo termine di quella transizione. In effetti, il declino del tessuto produttivo è sembrato più imputabile a una colpevole mancanza di visione dei cambiamenti economici introdotti dall'adozione dell'euro che a una deliberata politica economica neoliberista.
Infine, un altro luogo comune è che la sinistra nel dedicare maggiore attenzione alla giustizia sociale trascuri la crescita economica, mentre la destra nel dedicare maggiore attenzione alla crescita economica trascuri la giustizia sociale. Anche questa antinomia è stata smentita dai fatti: mentre i governi sostenuti da partiti di destra non sono riusciti a far crescere l'economia, i governi sostenuti da partiti di sinistra non sono riusciti a migliorare la distribuzione della ricchezza.
Più in generale, il dualismo tra crescita economica e giustizia sociale è anch'esso il retaggio di un'ormai anacronistica contrapposizione ideologica. L'idea che la crescita economica sia inconciliabile con una distribuzione della ricchezza più equa e solidale, ovvero l'assunto che maggiori sono le differenze nella distribuzione della ricchezza, maggiori saranno le prospettive di crescita di un paese, è un assunto smentito dai bassi tassi di crescita dei paesi dove si è determinato un eccessivo divario tra fasce ricche e fasce povere della popolazione.
Tra questi paesi, purtroppo, vi è anche l'Italia che nonostante abbia visto aumentare le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza non ha visto crescere la sua economia, anzi è precipitata in una lunga fase di recessione economica. Considerando l'impoverimento della classe media, sembra che siano state proprio le eccessive disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza a determinare l'incapacità della popolazione di sostenere la domanda interna di beni e servizi, mentre le fasce ricche di popolazione preferivano esportare i capitali o accrescere gli investimenti finanziari (spesso speculativi), piuttosto che investire in Italia, determinando così ulteriori effetti negativi sulla crescita economica.
D'altro canto, qualsiasi governo democratico avrebbe grosse difficoltà nel perseguire una più equa distribuzione della ricchezza in assenza di una crescita economica abbastanza sostenuta.
In conclusione, nell'era della globalizzazione la misura e i modi dell'intervento dello Stato nell'economia non dovrebbero essere presi in ostaggio nè dalla destra nè dalla sinistra. In un contesto di economia globalizzata le politiche economiche non dovrebbero avere una matrice politica ancorata a ormai anacronistiche ideologie del '900, ma una matrice politica coerente con una delle possibili visioni del futuro del paese.
Con il nuovo millennio c'è stato un cambio di paradigma nel sistema economico: l'internazionalizzazione delle economie, la nascita di istituzioni economiche internazionali tecnocratiche, la cessione di sovranità degli stati nazionali a organismi sovranazionali, il proliferare di accordi economici multilaterali. In questo contesto, eventuali politiche economiche orientate da anacronistiche piattaforme politiche, sia di destra che di sinistra, sarebbero sicuramente destinate a fallire.