Tasse, flat tax e spesa pubblica
La discussione politica sulle tasse pagate dai cittadini e dalle imprese, come ad esempio la cosiddetta “flat tax”, l’IRPEF o l’IVA, suscita sempre un forte interesse e alimenta in ogni contribuente la speranza che le imposte, di qualsiasi tipo e comunque le si chiami, possano diminuire.
Il sistema fiscale dello Stato, o più brevemente il fisco, attraverso diverse forme di prelievo - tasse, imposte, tributi e contributi - alimenta le entrate statali, ovvero la quantità di denaro che lo Stato incassa durante l'anno e che utilizza interamente per la spesa pubblica.
Il modo in cui le entrate fiscali dello Stato sono spese è delineato dall'andamento e dalla ripartizione della spesa pubblica che quindi è l'altra faccia della medaglia della tassazione complessiva dei cittadini.
La tassazione complessiva dei cittadini viene misurata attraverso un indice della pressione fiscale, ovvero l'ammontare complessivo annuo delle entrate fiscali espresso in termini di percentuale del PIL (Prodotto Interno Lordo).
Il tema della tassazione dei cittadini e delle imprese può sembrare semplice, infatti alcune forze politiche sfruttano questa apparente semplicità per fare propaganda politica motivate dall'assunto che tutti sarebbero felici di pagare meno tasse.
Nella realtà, invece, il tema della tassazione è molto complesso tant'è vero che è oggetto di studi scientifici e costituisce un'importante branca dell'economia: la scienza delle finanze.
Perché si pagano le tasse
Le tasse si pagano perché i cittadini vogliono che lo Stato garantisca loro servizi (pensioni, assistenza sociale, sanità, istruzione, sicurezza, trasporti, etc.), infrastrutture (strade, ponti, luoghi pubblici, reti fognarie, di illuminazione, di comunicazione, etc.) e più in generale l'esercizio dei diritti civili, politici e sociali. Ovviamente, c'è anche bisogno di mantenere un'organizzazione democratica che si occupi di predisporre e gestire tutte queste cose, ovvero lo Stato stesso (Parlamento, Magistratura, Pubblica Amministrazione, etc.).
In sostanza, le tasse sono una partita di giro: quanto viene pagato dai contribuenti ritorna ai contribuenti sotto forma di servizi, infrastrutture e supporti per l'esercizio dei diritti civili, politici e sociali, detratti i costi di mantenimento delle strutture di gestione.
Lo Stato spende, infatti, tutte le risorse finanziarie che incassa, anzi molto spesso spende più di quello che incassa e si indebita nei confronti degli stessi cittadini, degli investitori e delle organizzazioni internazionali. Ovviamente, l'indebitamento non è gratis. Lo Stato paga gli interessi sul debito accumulato ovvero spende una parte delle entrate fiscali per pagare gli interessi sul debito pubblico.
Quanto più alto è il debito pubblico e i tassi d'interesse pagati sul debito (o il cosiddetto spread, che misura la differenza con il tasso d'interesse pagato dal paese europeo più virtuoso), tanto più lo Stato sarà costretto a spendere meno per servizi e infrastrutture.
Perchè non pagare le tasse è considerato un reato
L'obbligatorietà del pagamento delle tasse comporta la previsione di sanzioni anche di tipo penale ai trasgressori. L'uso della coercizione (di carattere giudiziale negli stati di diritto) per riscuotere tasse, imposte e tributi è sempre stata una prerogativa del potere statale. Evidentemente la coercizione si rende necessaria perché esistono i ladri e gli approfittatori. Sono ladri coloro che rubano. Sono approfittatori coloro che usufruiscono di un bene o un servizio - nello specifico un bene o un servizio pubblico finanziato dalle tasse - senza aver partecipato pro quota alla spesa, tanto il servizio è pagato da altri.
Si tratta di fenomeni di devianza sociale che ovviamente devono essere repressi attraverso pene e sanzioni. Tuttavia, mentre la sanzione sociale nei confronti dei ladri è immediata, gli approfittatori sono più difficili da individuare e quindi da sanzionare.
Approfittare è spesso un riflesso della natura umana (homo homini lupus): a volte nemmeno ci si rende conto di approfittare mentre altre volte è facile trovare una giustificazione, ad esempio quando si ritiene che il pagamento delle spese non sia stato equamente suddiviso tra gli utilizzatori del bene o del servizio oppure quando la qualità o l'effettiva utilità del servizio venga compromessa da altri utilizzatori.
In altre parole, perché pagare un servizio scadente o inutilizzabile o pagare di più sapendo che altri pagano meno o non pagano affatto? Se si estende questo ragionamento alla spesa pubblica complessiva, risulta evidente che la tentazione di evadere o eludere il pagamento delle tasse non è solamente un fenomeno di devianza sociale, ma è anche un fenomeno di malcostume, di necessità, di opportunismo quando le maglie del sistema fiscale sono troppo larghe (come ad esempio per l'elusione fiscale).
Il problema della repressione dell'evasione fiscale, dell'elusione e del rapporto tra potere impositivo e cittadini nasce dalla difficoltà che lo Stato incontra nel fare a priori distinzioni tra chi non paga le tasse con dolo e chi non lo fa per necessità, per negligenza, per errore o per altri motivi meno gravi del dolo.
In effetti, lo Stato potrebbe fare questa distinzione a posteriori attraverso il potere d'indagine dell'organizzazione giudiziaria o nello specifico della giurisdizione speciale delle Commissioni tributarie.
Invece, uno strumento troppo spesso utilizzato per ammorbidire il potere coercitivo dello Stato nel riscuotere le tasse è il condono fiscale. Poiché i criteri per l'accesso a un condono sono necessariamente generali, sarebbe preferibile evitare il ricorso a questo strumento che altera la percezione dell'equita del sistema fiscale e intervenire con strumenti di tipo assistenziale, più efficaci nel valutare la reale situazione soggettiva dei contribuenti inadempienti.
La distribuzione del carico fiscale
L'equità del prelievo fiscale, o meglio la percezione dell'equità del sistema fiscale, è un fattore molto importante che incide sull'atteggiamento dei cittadini nei confronti del fisco e delle tasse.
Un atteggiamento collaborativo dei cittadini produrrà risultati di gettito decisamente migliori rispetto a un atteggiamento ostile, fermo restando che una minima percentuale di fenomeni di devianza sono fisiologici anche nel sistema più equo.
Il sistema fiscale deve quindi essere orientato a criteri di proporzionalità e progressività, come recita l'art. 53 della Costituzione: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività".
La capacità contributiva può essere valutata in base al reddito e al patrimonio sui quali il soggetto dovrà pagare l’imposta.
La prescrizione contenuta nella Costituzione riguarda l'intero sistema, e non i singoli tributi, e comporta quindi la necessità di caratterizzare il sistema fiscale attraverso la presenza di imposte a struttura progressiva.
Infatti, i tributi possono essere di tipo fisso (l'ammontare non varia al variare del reddito o delle caratteristiche del contribuente, ad es. l'imposta di bollo), proporzionale (l'aliquota di applicazione, ossia la percentuale dovuta, è costante e non muta qualunque sia la base imponibile, ad esempio l'IVA) e progressivo (l'aliquota media aumenta in modo più che proporzionale rispetto all'aumentare della base imponibile, ad esempio l'IRPEF).
Generalmente le imposte dirette, come le imposte sul reddito, sono progressive mentre le imposte indirette non sono connesse alla capacità contributiva del cittadino e sono dovute nella stessa misura sia dai ricchi che dai poveri, come ad esempio l'IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) che tassa i consumi con aliquote differenziate a seconda dei beni e dei servizi scambiati.
La differenza tra imposte dirette e indirette introduce già elementi di complessità che rendono difficile determinare l'equità di un sistema fiscale, ovvero la distribuzione equa del carico fiscale tra i cittadini in ragione della loro capacità contributiva.
Ma l'equità del sistema fiscale dipende anche da altri fattori, tra cui le differenze di trattamento tra i redditi percepiti dalle persone fisiche e quelli delle persone giuridiche, tra i redditi da lavoro e i redditi da capitale, tra i redditi tassati con ritenute alla fonte e quelli tassati a posteriori con o senza il versamento di anticipi, tra i redditi prodotti all'estero e quelli prodotti sul territorio nazionale. Poi ci sono le detrazioni, le deduzioni e una miriade di agevolazioni fiscali per settori, attività, condizioni soggettive, etc.
Infine, l'equità del sistema fiscale dipende anche dalla sua efficienza ed efficacia. Un sistema fiscale lento, facilmente eludibile o eludibile da alcune categorie crea di per se delle ingiustizie, poiché crea delle disparità di trattamento tra cittadini anche in un sistema fiscale teoricamente equo.
Valutare l'equità complessiva di un sistema fiscale è in sostanza un'operazione molto complessa e occorre fare riferimento a specifici studi.
Uno dei principali problemi connessi all'equità del sistema fiscale è la maggiore difficoltà di tassare i redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro.
Infatti, la mobilità dei capitali consente agli investitori di evitare i paesi in cui la tassazione dei capitali è considerata eccessiva (ovvero di migrare nei paradisi fiscali e/o di utilizzare forme societarie complesse strutturate come scatole cinesi), mentre la tassazione dei redditi da lavoro, in particolare quello subordinato, è meno eludibile. Questa circostanza ha determinato una crescita dell'imposizione fiscale che grava sui redditi da lavoro.
Oggi si profila sempre più impellente la necessità di attenuare la pressione fiscale sui redditi da lavoro, poiché l'evoluzione delle economie e la globalizzazione rischiano di penalizzare eccessivamente il lavoro mentre, allo stesso tempo, la tendenza riscontrata nei paesi di prima industrializzazione alla diminuzione della quota di reddito spettante al lavoro rischia di compromettere in futuro il gettito fiscale.
Come vengono utilizzati i soldi delle tasse: l'efficienza della spesa pubblica
Anche se il carico fiscale è ben distribuito e il sistema fiscale è equo ed efficiente, resta ancora una preoccupazione per il cittadino: come vengono spesi i soldi delle tasse.
La preoccupazione è in realtà duplice, poiché oltre a valutare il costo opportunità (meglio costruire una scuola o una strada?) chi decide la spesa pubblica dovrebbe sempre tenere in grande considerazione che i soldi spesi dallo Stato sono sostanzialmente entrate fiscali, ovvero le tasse faticosamente pagate dai cittadini. Chi gestisce una cassa comune ha maggiori responsabilità rispetto a chi gestisce un patrimonio proprio. In Italia, invece, la gestione delle risorse pubbliche sembra quasi deresponsabilizzare i decisori e i controllori, come se le risorse pubbliche fossero infinite o di nessuno.
Lo stesso discorso vale per la spesa pubblica fatta a debito, poiché un debito anche quando assunto dallo Stato comporta sia la restituzione del capitale che il pagamento degli interessi. Uno Stato non dovrebbe mai indebitarsi con leggerezza, infatti l'indebitamento pubblico comporta una spesa aggiuntiva costituita dagli interessi e, prima o poi, il rimborso del debito. Il punto è che sia il rimborso dei capitali che la spesa per interessi devono necessariamente essere finanziati con le entrate fiscali, con le tasse pagate dai cittadini (anche la stampa di moneta ed eventuali svalutazioni della stessa prima o poi sono pagate dai cittadini).
Inoltre, la quantità di debito e la quantità di interessi che vengono pagati dallo Stato sono correlate. Quantità elevate di debito e interessi alti comportano costi crescenti da coprire con le entrate fiscali.
E' importante per gli Stati molto indebitati tenere sotto controllo sia la quantità di debito pubblico che la quantità di spesa per interessi, mentre per quanto riguarda la spesa pubblica in sé la quantità è molto meno importante della sua qualità.
Esistono, infatti, degli Stati che nonostante abbiano una pressione fiscale molto alta, superiore al 50% del PIL, possono vantare un tasso di soddisfazione e di benessere della popolazione decisamente superiore rispetto ad altri Stati che, ad esempio, hanno una pressione fiscale intorno al 30% del PIL.
Questo accade perché lo Stato è spesso in grado di produrre servizi e infrastrutture per la comunità, o quantomeno una quota consistente, come ad esempio strade, assistenza sanitaria e istruzione, in modo più efficace e meno costoso rispetto al settore privato. Infatti, il settore privato non sempre riesce a dare bella prova di se, basti pensare alle cosiddette nazionalizzazioni, ai salvataggi industriali e bancari, all'aspettativa di vita delle fasce povere di popolazione negli Stati che non hanno una sanità pubblica.
In sostanza, se la spesa pubblica è efficace ed efficiente, senza sprechi dovuti alla malagestione e alla corruzione, i cittadini saranno contenti di finanziarla pagando le tasse. Se i cittadini percepiscono che non vengono esercitati controlli sulla qualità della spesa pubblica, che nella Pubblica Amministrazione si annidano sprechi, inefficienze, incompetenza e malagestione o ruberie, troppo spesso recidive e non punite adeguatamente, saranno giustificati a pensare che una quota delle tasse che loro pagano non è necessaria o che finisce nelle tasche sbagliate, che non ritorna ai cittadini in termini di servizi, infrastrutture e strumenti per l'esercizio dei diritti civili, politici e sociali.
Occorre comunque evidenziare che garantire ai cittadini l'efficacia ed efficienza della spesa pubblica è decisamente più difficile che garantire l'equità del sistema fiscale.
Mentre il sistema fiscale è gestito fondamentalmente da un solo ministero, la spesa pubblica è distribuita su tutti i ministeri e a cascata su una miriade di enti strumentali e autonomi, locali e territoriali. In sostanza, il miglioramento della qualità della spesa pubblica non dipende tanto dalle scelte governative quanto dalle scelte e dai controlli della Pubblica Amministrazione.
E' evidente, che in Italia su questo tema sia le forze politiche che i cittadini hanno ancora molta strada da percorrere se vogliono recuperare terreno rispetto agli altri principali paesi europei.
Come le entrate fiscali e la spesa pubblica sono collegate all'andamento economico
Chiarito il rapporto tra tasse (imposte, tributi e contributi), spesa pubblica e indebitamento, ovvero tra i principali elementi della cosiddetta finanza pubblica, è possibile introdurre un ulteriore elemento di complessità: gli effetti della gestione delle finanze pubbliche sull'economia e più specificatamente sulla crescita economica.
Semplificando molto:
- una crescita della spesa pubblica determina un aumento della domanda aggregata di beni e servizi e quindi farebbe crescere l'economia;
- la crescita economica dovrebbe anche far crescere il gettito fiscale ma solo nel lungo periodo;
- nel breve periodo, invece, la crescita della spesa pubblica comporta un aumento della tassazione che ha un effetto di segno contrario sulla domanda aggregata, ovvero farebbe decrescere l'economia;
- i due effetti sull'economia, quindi, si annullerebbero a vicenda;
- qualora la maggiore spesa pubblica fosse finanziata con l'indebitamento, accrescendo quindi il debito pubblico (sempre che questo non comporti un eccessivo innalzamento dei tassi d'interesse sul debito), l'effetto netto sull'economia sarebbe positivo, tuttavia la crescita dell'indebitamento impone un'altra condizione;
- la condizione è che l'accrescimento della spesa pubblica in deficit sia speso in investimenti, ovvero in spese una tantum che generano un ritorno sull'investimento, poiché qualora l'indebitamento fosse utilizzato per coprire spese correnti il debito si avviterebbe su se stesso determinando effetti negativi sulle finanze pubbliche e sull'economia.
Le relazioni sopra esposte sono semplificate, cioè non tengono conto di altri importanti fattori, ma già risulta evidente che le relazioni esistenti tra tasse, spesa pubblica, inebitamento ed economia rendono la gestione delle finanze pubbliche molto complessa.
La flat tax, la diminuzione della tassazione e il rilancio della crescita economica
A questo punto della lettura dovreste aver intuito che la propaganda politica spesso semplifica in modo fuorviante il tema delle tasse poiché una diminuzione delle imposte non comporta affatto una crescita "automatica" dell'economia.
Inoltre, una diminuzione della pressione fiscale non sarebbe nemmeno auspicabile se questa dovesse comportare la dismissione di servizi pubblici essenziali, come la previdenza, la sanità e l'istruzione.
Per avere effetti positivi sull'economia una diminuzione della tassazione complessiva richiede accorgimenti in parte simili e in parte diversi rispetto a una politica fiscale basata sulla crescita della spesa pubblica.
Per essere uno stimolo efficace alla crescita economica anche una diminuzione della tassazione complessiva dovrebbe essere finanziata a debito (sempre che lo Stato non sia già troppo indebitato e che non si verifichi un aumento dei tassi d'interesse pagati sul debito pubblico), ma in tal caso la crescita delle disponibilità finanziarie del settore privato dovuto alla diminuzione delle tasse comporta che le decisioni di spesa su queste maggiori disponibilità sarebbero prese autonomamente dai privati.
Non è automatico che i privati siano disposti a consumare e ancor meno a investire le maggiori disponibilità finanziarie liberate dalla diminuzione della pressione fiscale.
Infatti, per indirizzare le disponibilità aggiuntive dei privati liberate dalla diminuzione della pressione fiscale verso una crescita dei consumi e soprattutto degli investimenti (in grado di accrescere sensibilmente la domanda aggregata) il taglio delle tasse dovrebbe privilegiare determinate categorie (in particolare i potenziali investitori) determinando così ricadute importanti sull'equità del sistema fiscale.
Probabilmente, questa è una delle ragioni per cui quei pochi paesi che sono riusciti a rilanciare la propria economia attraverso una riduzione della pressione fiscale hanno un sistema finanziario di investimenti privati molto forte e di converso un settore pubblico meno sviluppato. Evidentemente, non è il caso dell'Italia.
In altre parole, la flat tax è uno strumento adatto per diminuire le tasse ai ricchi, cioè ai potenziali investitori, che però in Italia non brillano in quanto a capacità d'investimento nei settori produttivi nazionali, generalmente gravati da costi fissi non competitivi rispetto a quelli di altri paesi. Non è un caso che uno dei problemi emersi negli ultimi decenni che hanno contribuito ad affossare l'economia italiana sia la fuga di capitali all'estero e la cosiddetta finanza speculativa.
In sostanza, se si vuole rilanciare l'economia con politiche fiscali è sempre meno rischioso e più conveniente accrescere la spesa pubblica, piuttosto che diminuire la tassazione complessiva, in particolare in presenza di una bassa propensione agli investimenti del settore privato.
Per inciso, oltre alle politiche monetarie e alle politiche fiscali esistono altri modi per rilanciare la crescita economica: le cosiddette riforme strutturali. Si tratta di un'insieme di riforme di sistema in grado di liberare le risorse produttive del paese, troppo spesso soffocate da regolamenti ormai anacronistici in quanto tarati su un sistema economico ormai superato dalla globalizzazione e un'organizzazione sociale e amministrativa statica e inefficiente.
Tra le riforme strutturali rientra anche la riforma del sistema fiscale, necessaria al fine di razionalizzare il sistema delle imposte, tasse, tributi e contributi, cresciuto e stratificatosi negli anni in modo disomogeneo e squilibrato, anche al fine di massimizzare le entrate dello stato recuperando evasione fiscale.
La riforma del sistema fiscale comporterebbe una rimodulazione della pressione fiscale ma senza la necessità di diminuire la pressione fiscale complessiva.
In questo senso, la "flat tax" - che almeno in teoria dovrebbe comportare un'attenuazione della progressività delle imposte oggetto di riforma - così come propagandata nel contesto politico italiano potrebbe consistere in una rimodulazione delle imposte e non in una riduzione della pressione fiscale complessiva.
Ma allora perché non discutere apertamente di una riforma del sistema fiscale complessivo piuttosto che concentrare l'attenzione su una singola imposta?
Propagandare la "flat tax" all'italiana come una riduzione della tassazione complessiva per il rilancio della crescita economica e, allo stesso tempo, come una panacea per la semplificazione del sistema fiscale sembra un'operazione propagandistica poco trasparente, che alimenta il sospetto che si voglia solamente privilegiare una determinata categoria di cittadini attraverso la scusa del rilancio della crescita economica. I costi e i rischi connessi all'implementazione di una "flat tax" all'italiana, senza un'adeguata riforma di tutto il sistema fiscale, sarebbero certamente pagati a carissimo prezzo dalla collettività.