Contrariamente ai bilanci delle aziende private che prima o poi devono evidenziare dei profitti, i bilanci degli Stati chiudono l’esecizio annuale in pareggio o più frequentemente in passivo ovvero con una crescita dell’indebitamento complessivo. Tuttavia, se i debiti dello Stato diventano eccessivi e nascono dubbi sulla loro sostenibilità nel tempo, lo Stato dovrà accantonare una quota delle entrate per ripianare il debito pubblico se non vuole rischiare il fallimento. Ma accrescere le tasse per aumentare le entrate o tagliare le spese per diminuire le uscite non è mai un’operazione indolore per la popolazione. Inoltre, bisogna considerare gli effetti della gestione delle finanze pubbliche (spesa pubblica e tasse) sulla crescita economica. In linea di massima, uno Stato non dovrebbe indebitarsi per pagare le spese correnti, poiché queste generano una spirale di indebitamento continuo.
Nel corso della storia gli Stati hanno stimolato la crescita economica attraverso l'accrescimento della spesa pubblica, finanziata con un maggiore indebitamento al fine di evitare un contestuale aumento della tassazione complessiva che annullerebbe lo stimolo alla crescita. Questa strategia funziona ed è sostenibile se vengono rispettate determinate condizioni che alcuni paesi, tra cui l’Italia, non sembrano aver sempre ottemperato. Invece, pochi Stati sono riusciti a stimolare la crescita economica attraverso una drastica riduzione della tassazione, sempre finanziata da ulteriore indebitamento al fine di evitare una contestuale riduzione della spesa pubblica che annullerebbe l’effetto sulla crescita. Questa strategia alternativa di stimolo alla crescita economica funziona solamente in determinati contesti economici mentre fuori da questi contesti rischia di compromettere l’equità del sistema fiscale e la stabilità delle finanze pubbliche. Esiste, infine, un terzo metodo per stimolare la crescita economica. Negli Stati caratterizzati da situazioni di scarsa efficacia ed efficienza del sistema economico e dei relativi sottosistemi, tra cui quello fiscale, è possibile stimolare la crescita economica attraverso le cosiddette riforme strutturali, ovvero riforme che migliorano l’efficacia e l’efficienza del sistema economico. Queste riforme, tuttavia, anche quando non presentano un costo finanziario sembrano di difficile approvazione, perlomeno in Italia, poiché intaccano privilegi e rendite di posizione mentre richiedono tempi lunghi per l’attuazione.
L’andamento della spesa pubblica italiana dal 1995 al 2013 è stato coerente con la situazione finanziaria del paese? La spesa pubblica italiana è stata mal distribuita oppure è rimasta sostanzialmente in linea con quella degli altri paesi europei? Probabilmente, c’è stato un periodo di questo arco temporale in cui la crescita della spesa pubblica italiana è stata eccessiva, ma le inefficienze e gli sprechi che hanno eroso l’efficacia e l’efficienza della spesa pubblica non sono da imputare alle modalità di ripartizione adottate dai Governi bensì ai malfunzionamenti, alle incongruenze e all’eccessiva burocratizzazione della Pubblica Amministrazione italiana, condizionata da gruppi di pressione o da poteri locali che troppo spesso sono riusciti a distorcere gli obiettivi e le finalità della spesa pubblica per piegarla a interessi particolari o di accrescimento del consenso politico.
Quanto incidono sull’ammontare della spesa pubblica complessiva del paese le spese effettuate dalle regioni e dagli enti locali? Perché alcune regioni riescono a offrire ai cittadini servizi pubblici più consistenti rispetto a quelli offerti dalle altre regioni? Con quale criterio viene effettuata la perequazione della spesa pubblica tra regioni, considerando che la quota di gran lunga maggiore della spesa pubblica regionale è assorbita dal Servizio Sanitario Nazionale che, a rigor di logica, dovrebbe garantire uno standard qualitativo e di servizi uniforme su tutto il territorio italiano?
La globalizzazione sta cambiando progressivamente gli equilibri geopolitici ed economici tra le superpotenze mondiali. Mentre un tempo il mondo era sostanzialmente diviso in due sfere d’influenza (USA e URSS) che spingevano gli Stati europei da una parte o dall’altra, oggi la situazione è molto cambiata e in continuo divenire. Gli Stati europei hanno dovuto organizzarsi e affrettare il processo di costituzione dell’Unione Europea per evitare di subire passivamente gli accordi tra superpotenze vecchie e nuove. Considerando la consistenza degli ostacoli frapposti al processo di integrazione politica, le istituzioni europee hanno dato priorità all’integrazione economica tra i paesi membri. Questa modalità di costituzione dell’Unione Europea ha comportato dei vantaggi ma anche alcuni svantaggi. Ad esempio, l’assenza di una integrazione politica ha spesso determinato una mancanza di unanimità dei paesi membri sul posizionamento che le istituzioni europee avrebbero dovuto tenere in merito ad alcune questioni internazionali, indebolendo il peso dell’Unione Europea nello scacchiere geopolitico. Altresì, le crisi finanziarie del 2007 e del 2011 hanno evidenziato i limiti del processo di costituzione dell’Unione Europea basato su una integrazione economica non adeguatamente bilanciata da quella politica.
Il liberismo, da non confondere con il liberalismo, è stata una corrente di pensiero economico che ha caratterizzato un determinato periodo storico della prima rivoluzione industriale. La sua versione contemporanea, il cosiddetto neo liberismo, che riprende ed espande alcuni concetti del pensiero economico liberista originale è stato, invece, utilizzato come base teorica per spiegare e in parte giustificare sia l’arretramento dello Stato nella regolamentazione di alcuni settori economici (la cosiddetta “deregulation” attuata durante la presidenza Reagan negli Stati Uniti o le riforme del primo ministro Thatcher nel Regno Unito), sia la liberalizzazione del commercio internazionale attraverso accordi multilaterali tra Stati sovrani e la nascita di istituzioni tecnocratiche sovranazionali (la globalizzazione). Nel contesto politico italiano il liberismo o il neoliberismo sono stati invece utilizzati, a sproposito, solamente per criticare l’operato di alcuni governi, avallando un racconto politico-mediatico distorto della realtà dove le privatizzazioni venivano scambiate per liberalizzazioni e le politiche economiche politicizzate.