La rielezione di Giorgio Napolitano a Presidente della Repubblica
Considerata la situazione di stallo del Parlamento per la formazione di un nuovo governo e la prossimità della fine del suo mandato (15 Maggio), il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, prese un’iniziativa piuttosto inconsueta per evitare che la crisi di governo si trascinasse fino all’estate, vanificando in tal caso i sacrifici richiesti agli italiani dal governo Monti e approvati dal Parlamento al fine di sanare la situazione economica e finanziaria del paese. Dopo aver nominato una commissione di 10 saggi con l’intento di individuare delle proposte programmatiche condivisibili dalle forze politiche parlamentari, Giorgio Napolitano rassegnò le dimissioni. L’elezione del nuovo Presidente della Repubblica avrebbe dovuto sbloccare anche la formazione di un nuovo governo. Al Partito Democratico, che aveva la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati e quella relativa al Senato, spettava il ruolo di apripista ma a causa di conflitti interni entrò in stato confusionale. Fu come se un corto circuito tra i partiti in Parlamento avesse generato un blackout dell’intero sistema politico. Per superare l’impasse tutti i partiti politici, fortemente disorientati e incapaci di trovare autonomamente una soluzione, scelsero di affidarsi nuovamente a Giorgio Napolitano e di incamminarsi sul percorso tracciato dalla commissione dei 10 saggi.
Tra Marzo e Aprile del 2013 l'Italia ha attraversato un periodo molto difficile sul piano politico e istituzionale. Giorgio Napolitano dirà poi che "abbiamo vissuto un momento terribile". Bisognava, infatti, trovare una via d'uscita alla situazione di stallo che si era determinata in Parlamento in seguito ai risultati elettorali delle politiche del 24 e 25 Febbraio. Il Presidente della Repubblica si trovava, inoltre, nel cosiddetto "semestre bianco", cioè a meno di sei mesi dalla scadenza del suo mandato, per cui non aveva il potere di sciogliere le camere per poter eventualmente indire un rapido ritorno alle urne, ma d'altro canto le forze politiche erano trasversalmente concordi nel ritenere impraticabile la ripetizione delle elezioni, vista la situazione in cui versava il Paese sul piano economico, politico e istituzionale.
Nondimeno la soluzione della crisi istituzionale era tutta sulle spalle di Giorgio Napolitano che, dopo la resa di Pier Luigi Bersani a cui aveva conferito il preincarico di formare il governo il 22 Marzo e l'esito negativo del secondo giro di consultazioni del 29 Marzo, prese un'iniziativa inconsueta sul piano della prassi istituzionale.
Giorgio Napolitano, infatti, il 30 Marzo comunicava la sua decisione di "chiedere a due gruppi ristretti di personalità tra loro diverse per collocazione e per competenze, di formulare – su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo – precise proposte programmatiche che potessero divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche". Fu quindi nominata una commissione di 10 saggi.
Il Presidente della Repubblica chiariva, inoltre, che il lavoro di questo collegio di esperti avrebbe potuto agevolare il compito del suo successore, cui sarebbe spettato di intraprendere ex novo il tentativo di formazione del governo.
In sostanza, oltre a costituire i due gruppi di esperti che, interloquendo con le forze parlamentari, avrebbero cercato di individuare i punti di convergenza per un possibile programma condiviso, e agevolare la formazione dell’esecutivo, Giorgio Napolitano preannunciava le sue dimissioni (il suo mandato sarebbe scaduto il 15 Maggio) per anticipare l'elezione del Presidente della Repubblica.
L'elezione del Presidente della Repubblica fu quindi indetta per il 18 Aprile 2013, dopo che il 12 Aprile si era svolta al Quirinale la riunione per la consegna ufficiale delle relazioni dei 10 saggi.
L'elezione del Presidente della Repubblica, effettuata da un Parlamento rinnovato senza una maggioranza di governo, si concluse il 20 Aprile al sesto scrutinio con la rielezione, caso unico nella storia d'Italia, di Giorgio Napolitano a Capo dello Stato. E' importante evidenziare l'ampia maggioranza, la condivisione politica, di questa rielezione avvenuta con 738 voti favorevoli su 997 votanti (gli elettori erano 1007 pari a 630 deputati, 319 senatori e 58 delegati delle regioni).
Poichè le forze politiche presenti in Parlamento non erano riuscite a trovare un accordo per la formazione del nuovo Governo prima che si tenessero le elezioni per il nuovo Presidente della Repubblica, la dialettica tra i partiti finalizzata all'elezione del Capo dello Stato fu fortemente influenzata dalle prospettive per la formazione di un nuovo Governo. Governo che, nonostante la situazione di stallo determinata dal risultato elettorale, era una necessità improrogabile a causa della grave crisi economica e di fiducia nei confronti dell'Italia, considerando pure che, dato il quadro politico, era convinzione diffusa che la legge elettorale in vigore comunque non sarebbe stata in grado di produrre una maggioranza al Senato con nuove elezioni politiche.
La rielezione di un Presidente della Repubblica uscente è stata un avvenimento inedito per l'Italia, ma è sembrata alla forze politiche presenti in parlamento l'unica possibile soluzione ad una grave crisi istituzionale, una crisi sostanzialmente determinata dall'incapacità degli stessi partiti politici di riformare il paese e le istituzioni. Giorgio Napolitano è stato rieletto nonostante avesse più volte dichiarato la sua indisponiblità a candidarsi nuovamente a Presidente della Repubblica ed ottenne molti più voti rispetto alla precedente elezione: era stato eletto per la prima volta Capo dello Stato il 10 maggio del 2006 al quarto scrutinio con 543 voti favorevoli, 195 voti in meno rispetto alla elezione del 2013.
I partiti politici esercitarono una forte pressione su Giorgio Napolitano per indurlo ad accettare un secondo mandato da Presidente della Repubblica e poi lo votarono ad ampia maggioranza. Perchè?
Oltre all'accavallarsi della elezione del nuovo Capo dello Stato con le prospettive di formazione di un Governo di emergenza in grado di ottenere la fiducia del Parlamento, occorre considerare le contraddizioni esplose all'interno del Partito Democratico durante l'elezione del Presidente della Repubblica.
Al Partito Democratico, essendo la forza politica che aveva la maggioranza alla Camera dei Deputati, spettava l'onere di proporre alle altre forze politiche una rosa di candidati alla Presidenza della Repubblica e tentare di raggiungere su uno di questi candidati il più ampio consenso in Parlamento, come è stabilito nella Costituzione che sancisce per l'elezione del Presidente della Repubblica la maggioranza qualificata di due terzi dei componenti l'assemblea nei primi tre scrutini e la maggioranza assoluta (cioè la metà più uno dei componenti l'assemblea) dal quarto scrutinio in poi.
Nei giorni precedenti l'elezione del Capo dello Stato, il Partito Democratico aveva rilasciato delle dichiarazioni sibilline a proposito delle differenti strategie che stava adottando per trovare un accordo per la formazione di un nuovo Governo, da un lato, e per l'elezione del Presidente della Repubblica, dall'altro. Questa strategia, definita da alcuni esponenti del PD del "doppio binario", consisteva nel cercare un accordo con il Movimento 5 Stelle per la formazione di una maggioranza di Governo ed un diverso accordo, più ampio, con le altre forze politiche presenti in Parlamento per l'elezione del Presidente della Repubblica.
Le contraddizioni esplose nel Partito Democratico erano sottintese in questa strategia del "doppio binario".
Infatti, come andava interpretata la posizione del Partito Democratico in merito all'elezione del Capo dello Stato, alla luce del precedente tentativo di perseguire una alleanza con il Movimento 5 Stelle per la formazione di un Governo? Andava interpretata nel senso di un allargamento anche agli altri partiti dell'auspicato accordo con il Movimento 5 Stelle, cioè nella ricerca di un candidato alla Presidenza della Repubblica che fosse gradito sia al Movimento 5 Stelle che ad altri partiti, oppure andava interpretata nel senso di trovare un accordo con gli altri partiti che fosse più ampio, ma alternativo a quello con il Movimento 5 Stelle, cioè un accordo che escludesse il Movimento 5 Stelle dai giochi per l'elezione del Capo dello Stato?
Nonostante la contraddizione tra questa seconda ipotesi ed il tentativo di formare un governo con il Movimento 5 Stelle fosse evidente, fu proprio questa seconda ipotesi a prevelare nel Partito Democratico.
Infatti, con la candidatura di Franco Marini al primo scrutinio per l'elezione del Presidente della Repubblica venne esplicitata proprio una strategia del "doppio binario" che induceva il Partito Democratico ad interpretare contemporaneamente due diverse posizioni politiche, l'una in contraddizione con l'altra. Non stupisce quindi che la candidatura di Franco Marini alla prima votazione, maturata in accordo con il centrodestra, non ebbe successo, non solo per la defezione dell'alleato SEL o per la defezione, peraltro annunciata, di una parte dei deputati e senatori del PD che non erano d'accordo sulla candidatura di una figura tradizionalista e partitocratica in un clima rovente di antipolitica.
Al quarto scrutinio ci fu la riprova della coesistenza di due linee politiche divergenti e contraddittorie nel Partito Democratico.
Infatti, dopo l'insuccesso della candidatura di Franco Marini il Partito Democratico decise di attendere il quarto scrutinio, che consente di eleggere il Capo dello Stato a maggioranza assoluta, e di serrare le fila approvando all'unanimità ed in accordo con SEL la candidatura di Romano Prodi, una candidatura fortemente osteggiata dal centrodestra che aveva messo un veto proprio sull'ex Presidente del Consiglio, ex rivale di Berlusconi.
A questo punto la posizione assunta del Partito Democratico per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica appariva chiaramente schizofrenica: la candidatura di Romano Prodi rappresentava una inversione ad U rispetto alla posizione assunta con la candidatura di Franco Marini, poichè in sostanza veniva rinnegato in modo plateale il precedente tentativo di accordo con il centrodestra.
Lo stato confusionale in cui si trovava il Partito Democratico era testimoniato anche da un'altra circostanza: la posizione assunta dal PD con la candidatura di Prodi non assumeva nemmeno il significato di un ritorno alla coerenza con le posizioni assunte nel tentativo di formare un governo con il Movimento 5 Stelle, ma veniva presentata come un arroccamento della coalizione di centrosinistra, come un tentativo di procedere in autonomia.
Eppure l'eventuale elezione di Romano Prodi a Presidente della Repubblica avrebbe bloccato qualsiasi ulteriore tentativo di accordo con il centrodestra e probabilmente quella parte del Partito Democratico contraria a qualsiasi accordo con Berlusconi aveva individuato nella persona di Romano Prodi un candidato di prestigio in grado di ottenere il consenso di tutto il centrosinistra e di almeno una parte del Movimento 5 Stelle, visto che Romano Prodi era annoverato tra i nominativi graditi anche al M5S. In realtà la prima scelta del Movimento 5 Stelle era caduta su un'altro candidato, Stefano Rodotà, ma nonostante fosse un esponente del PD una eventuale convergenza di tutto il centrosinistra su questo nominativo era esclusa da una netta contrarietà di una parte dello stesso Partito Democratico.
La contraddizione interna al Partito Democratico esplose nuovamente con il voto su Romano Prodi, che non solo non venne appoggiato dal M5S, ma venne tradito da quella parte del suo partito che non voleva rinunciare alla possibilità di un accordo con il centrodestra. Romano Prodi ottenne al quarto scrutinio solamente 395 voti che fecero emergere la presenza di 101 franchi tiratori tra le fila del centrosinistra.
A questo punto la crisi del Partito Democratico era conclamata, Rosy Bindi si dimise dall'incarico di presidente del partito e Bersani annunciò le sue dimissioni dall'incarico di segretario.
La quinta votazione procedette a vuoto per prendere tempo. Nel frattempo alcuni leader di partito (Mario Monti, Pier Luigi Bersani e Silvio Berlusconi) e alcuni delegati regionali avevano incontrato separatamente il Capo dello Stato Giorgio Napolitano per chiedere la sua disponiblità ad essere rieletto, sostenenedo che la sua statura politica fosse l'unica in grado di garantire l'unità e la coesione nazionale in una fase così drammatica della vita politica italiana.
Giorgio Napolitano decise di accettare la ricandidatura per senso di responsabilità e a condizione che i partiti si impegnassero senza indugi a riformare la legge elettorale e le istituzioni. Alla sesta votazione, con un ampio consenso, Giorgo Napolitano divenne il primo Presidente della Repubblica italiana a svolgere un secondo mandato.