Parlamento: la situazione di stallo dopo le elezioni politiche 2013
In molti hanno rimproverato al segretario del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, di aver tentato di intavolare una trattativa con il Movimento 5 Stelle poiché la situazione politica che si era consolidata durante la campagna elettorale, considerando in prospettiva le ambizioni elettorali dei partiti, non lasciava spazi di manovra. Il Movimento 5 Stelle auspicava un accordo anche parziale tra il centrosinistra e il centrodestra per poterlo propagandare come una conferma dell’esistenza dei cosiddetti “inciuci” a tutela della casta dei politici di professione e dell’establishment economico finanziario. D’altro canto, un accordo del Partito Democratico con il Popolo della Libertà e Berlusconi avrebbe probabilmente causato l’immediata scissione delle due anime del PD. Il centrodestra, invece, aveva messo il veto su un eventuale secondo governo tecnico poiché in campagna elettorale aveva ripudiato il governo Monti. La strategia di Bersani era in fondo un’opzione possibile anche se impraticabile per ribadire che il partito Democratico era, a differenza delle altre forze politiche, “responsabile”.
Con le elezioni del 24 e 25 Febbraio 2013 la coalizione di centrosinistra pur avendo ottenuto il premio di maggioranza alla Camera non era riuscita a racimolare una maggioranza in Senato. Dopo il deludente risultato elettorale, il Partito Democratico il 6 Marzo convocò la direzione nella propria sede nazionale con all'ordine del giorno le elezioni politiche, le iniziative del PD e la relazione del Segretario Pier Luigi Bersani. Nella direzione la relazione di Bersani fu sostanzialmente approvata all'unanimità, cosicchè il Partito Democratico si apprestò ad attuare la strategia politica elaborata dal segretario.
I punti cardine di questa strategia erano:
- la rivendicazione di un ruolo di responsabilità nell'elaborare una proposta politica per il paese, in quanto forza politica che aveva ottenuto la maggioranza assoluta alla camera e la maggioranza relativa al senato;
- la presentazione di un programma di governo in 8 punti al Parlamento, con l'obiettivo di ottenere una fiducia per un "governo di scopo" di breve durata;
- l'irrinunciabilità di ognuno degli otto punti programmatici, che tradotto dal politichese significava sbarrare la strada ad un eventuale accordo con il PDL e quindi ad un governo delle larghe intese.
Gli otto punti del programma di Bersani erano:
- Fuori dalla gabbia dell'austerità;
- Misure urgenti sul fronte sociale del lavoro;
- Riforma della politica e della vita pubblica;
- Voltare pagina sulla giustizia e l’equità;
- Legge sui conflitti di interesse, sull’incandidabilità l’ineleggibilità e sui doppi incarichi;
- Economia verde e sviluppo sostenibile;
- Diritti;
- Istruzione e ricerca.
Inoltre, nel tentativo di coinvolgere l'opinione pubblica e mettere alle strette il M5S, gli otto punti del programma politico di Bersani vennero pubblicati in una sezione speciale del sito web del Partito Democratico. L'idea di Bersani era di alimentare un dibattito pubblico su ogni singolo progetto di cambiamento illustrato nel programma, con un duplice obiettivo: da un lato qualificare e chiarire come il Partito Democratico avrebbe voluto cambiare l'Italia, dall'altro costringere le altre forze politiche ad assumersi delle responsabilità di fronte al paese attraverso una pronuncia pubblica a favore o contro gli otto progetti di cambiamento.
Analizzando il risultato elettorale, la dirigenza del Partito Democratico era giunta alla conclusione che gli elettori, premiando il Movimento 5 Stelle e penalizzando la lista del Presidente del Consiglio uscente Mario Monti, avessero manifestato una forte esigenza di cambiamento ed una insofferenza nei confronti delle politiche di austerità e dei sacrifici che il governo Monti aveva imposto al paese al fine di evitare il tracollo finanziario dello Stato italiano.
La strategia politica del Partito Democratico era quindi diretta, da un lato ad assecondare le esigenze di cambiamento del paese, dall'altro a mettere alle strette il Movimento 5 Stelle che si era fatto interprete del desiderio di cambiamento e del disagio economico durante il periodo della campagna elettorale, per sfidarlo ad attuare insieme, sul piano pratico ed operativo dell'azione di governo, gli otto progetti di cambiamento che in effetti rappresentavano anche una parte del programma dello stesso Movimento 5 Stelle.
Ma uno dei punti deboli di questa strategia era la sistematica sottovalutazione del sentimento di antipolitica e la profonda insofferenza nei confronti dei partiti tradizionali che animavano il Movimento 5 Stelle. Infatti, il Partito Democratico con il suo apparato e la sua classe dirigente rappresentava il partito per antonomasia. Il Partito Democratico veniva, inoltre, accusato dal Movimento 5 Stelle di essere corresponsabile assieme al centrodestra della situazione di crisi economica che stava attraversando l'Italia, era considerato poco credibile, funzionale agli interessi della casta, un partito distante dai problemi della vita quotidiana delle classi più deboli ed indifese che in realtà aveva sempre condotto una falsa opposizione ai governi di centrodestra.
Paradossalmente anche la campagna elettorale del centrodestra, nei confronti della quale il Partito Democratico non aveva saputo regire limitandosi ad appellarla falsa e irresponsabile, aveva contribuito ad etichettare il Partito Democratico come il principale responsabile della crisi italiana e della degenerazione dei partiti in casta.
Infatti, la propaganda elettorale del centrodestra aveva negato l'esistenza stessa della situazione di pericolo finanziario in cui si era venuta a trovare l'Italia nel secondo semestre del 2011, adducendo un presunto complotto tra i partiti europeisti (tra cui il PD) e la Germania per far dimettere il governo Berlusconi, ed aveva accusato il PD di essere il partito delle tasse, il partito responsabile della crescita della tassazione a livelli insostenibili, incapace per la sua stessa natura di rilanciare la crescita economica.
Inoltre il Partito Democratico, che aveva fatto da stampella al governo tecnico di Mario Monti in una posizione subalterna alla coalizione di centrodestra per senso di responsabilità nei confronti del paese, era rimasto con il cerino acceso in mano quando il PdL, giocando di anticipo, aveva preso le distanze dal Governo Monti per poi in campagna elettorale affibbiare al Partito Democratico la responsabilità di quel governo. Ed in coerenza con questa strategia il leader del centrodestra, Silvio Berlusconi, aveva messo il veto sulla possibilità di sostenere un eventuale nuovo governo tecnico dopo le elezioni.
Ovviamente con queste premesse, alle quali si aggiungevano le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi indigeste per l'elettorato di sinistra e la base del PD, un eventuale accordo con il Popolo delle Libertà per formare un governo di larghe intese sembrava impraticabile. La direzione del Partito Democratico di Bersani ritenne quindi opportuno bussare disperatamente alla porta del Movimento 5 Stelle. Probabilmente, nel Partito Democratico temevano anche che un eventuale accordo PD-PDL avrebbe assunto agli occhi degli elettori il significato di una conferma degli "inciuci" che si sospettava avessero caratterizzato la cosiddetta Seconda repubblica, un accordo che avrebbe portato molta acqua al mulino del Movimento 5 Stelle e di tutte quelle forze politiche di minoranza che sostenevano che il centrosinistra era stato in passato fin troppo funzionale ai governi di centrodestra, ovvero che tra il PD ed il PDL si fosse realizzata una simbiosi, un gioco delle parti finalizzato alla spartizione illecita del potere e delle risorse pubbliche.
Nel Parlamento si era quindi determinata una situazione di stallo: la formazione di una maggioranza era bloccata dal veto di Berlusconi ad un nuovo governo tecnico, dal veto del Partito Democratico a un governo di grande coalizione e dal no di Grillo al "governo del cambiamento" proposto dal PD di Bersani.
Nel bel mezzo di una grave crisi economica l'ultimo baluardo ad una pericolosa crisi istituzionale era rappresentato dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che però si trovava nel semestre bianco, il periodo di sei mesi antecedente la scadenza del mandato durante il quale il Presidente della Repubblica non ha il potere di sciogliere le camere. La seppur remota possibilità, considerando il contesto economico ed europeo, di tornare nuovamente alle urne era quindi per il momento inibita anche formalmente.